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Il palmento

 

Il palmento non è altro che un’evoluzione del Torcularium delle antiche ville pompeiane e stabiane del periodo romano. Attrezzatura di particolare importanza in questi locali di vinificazione fu il torchio per la pressatura delle vinacce. All’inizio a leva, il sistema di torchiatura fu poi migliorato introducendo la vite. Sull’Etna tale rivoluzione, a differenza che in altre aree siciliane dove il regime latifondista era completamente delegato ai potenti gabellòti della nobiltà palermitana, consentì una capillare trasformazione dei terreni collinari etnei, che in poco tempo diventarono stupendi vigneti. La trasformazione agraria del vulcano determinò, in considerazione della quantità di lavoro e tempo che bisognava dedicare ai vigneti da parte del proprietario e della sua famiglia, un’urbanizzazione residenziale diffusa delle aree agricole, che si spinse per le varie contrade sino ad ove era possibile coltivare il vigneto. Ogni vigneto di proprietà veniva dotato di costruzione rurale comprendente l’abitazione per la famiglia del proprietario e immancabilmente di palmento, per la trasformazione dell’uva prodotta. Il palmento, nella regione etnea, ebbe così un’importanza oltre che economica, sociale e politica. Il paesaggio agrario era contraddistinto da centinaia e centinaia di case-cantina di differenti tipologie architettoniche, dimensioni e stili, riconoscibili, in quanto architettonicamente caratterizzati da un piano affacciato su una terrazza sostenuta da poderosi archi sul piano terra per riparare i locali cantina. Quest’ultima si distingue per la presenza di finestre esposte a nord (aperte al vento di tramontana). I colori tipici sono il rosa, l’ocra o il grigio. Caratteristica peculiare nella fabbricazione del palmento etneo, oltre l’utilizzo della pietra lavica, è quella di essere costruito in modo da sfruttare, nelle operazioni di vinifìcazione, la forza di gravità, senza utilizzo di nessuna attrezzatura di sollevamento del liquido. Durante la vendemmia l’uva veniva raccolta da squadre di operai dette ciurme. Questi, una volta riempite di uva le ceste, costruite con canne intrecciate, dette coffe o cufini, le portavano a spalla sino al palmento. Qui salivano per delle scale e attraverso una finestra, scaricavano l’uva nella pista: larga e bassa vasca in pietra lavica, dove si trovavano alcuni operai che la pestavano o a piedi nudi o dopo aver calzato pesanti scar­poni. I pistaturi, con piccoli passi ritmati e le mani dietro la schiena, effettuavano una sorta di girotondo, cantando delle canzoni popolari tipiche vendemmiali. In questa fase veniva utilizzato, per aiutarsi a pressare ulteriormente i grappoli, il cosiddetto sceccu: una specie di ruota di 1,5 metri di diame­tro, costruita con rami di salice intrecciati, su cui più persone salivano sopra contemporaneamente dopo essersi disposti in cerchio attorno ad esso. I pistaturi, con la faccia rivolta verso lo sceccu con le braccia poste ognuno sulle spalle dell’altro, iniziavano a salire sullo sceccu ponendo un solo piede sullo stesso, mentre l’altro rimaneva ben fermo sullapista. Ad un certo punto uno di essi dava il comando ed i pistaturi saltavano contemporaneamente sullo sceccu e, flettendo ed estendendo le ginocchia, pressavano ulteriormente ciò che resta­va dei grappoli. Attraverso stretti canali in pietra lavica il mosto defluiva in un’altra vasca sottostante detta tina, costruita con lastroni di pietra lavica, in cui duran­te la pigiatura, si rimettevano di volta in volta, i grappoli già pressati (bucce e raspi) della pista. Nella tina avveniva la prima fermentazione a contatto con le bucce ed i raspi che durava, a seconda del tipo di vino e della zona, da un minimo di 24 ore ad una settimana. 

Con la svinatura, dalla tina, sempre attraverso tutto un circuito di canali in pietra, il mosto in fermentazione veniva fatto defluire nel ricevituri, altra vasca in pietra lavica ubicata sotto la tina, oppure diretta­mente nelle botti che si trovavano in un altro locale adiacente e sottostante al palmento, più basso, rispetto al palmento, di 3,5 - 4 m, detto ispensa, cioè la cantina. Nelle botti di castagno dell’Etna contenute nella ispensa, che tradizionalmente aveva il pavimento in terra battuta ed un’altezza al soffitto di 7 m. e oltre, il mosto in fermentazione completava la sua trasformazione. Nella ispensa si trovavano i cosiddetti tinelli con le apposite strutture in legno e corde che servivano a filtrare le fecce prodotte con i travasi del vino. Il procedimento consisteva nel mettere le fecce dentro un sacco di juta che a sua volta dentro si infilava dentro il tinello troncoconico, in legno o, castagno, il tutto appeso in modo che, via via che il vino defluiva nel tinello, questo diventava più pesante e pres­sava ulteriormente la feccia dentro il sacco. Le botti di castagno erano di svariate misure. La botte media era di 6-8000 litri. La vinaccia, detta aspa, rimanente nella tina, dopo la separazione dal mosto in fermentazione, veniva posta in un'altra vasca più piccola dove vi era il tor­chio, detto conzu. L’utilizzo del conzu prevedeva la presenza di operatori esperti guidati dal cosiddetto mastro di conzu, che dirigeva ed era responsabile di tutte le operazioni di torchiatura.ll conzu è una mac­china abbastanza complessa in cui la pressatura avviene ad opera di un contrappeso in pietra lavica. Costituito da tre parti fondamentali: una grossa trave in legno di quercia, detta lignu i conzu; un sistema di fissaggio centrale, detto scala, e posteriore della trave, detto piedi; ed un contrappeso anteriore in pietra lavica, detto petra di conzu, su cui si trova innestata una lunga vite in legno di sorbo. Questa vite aveva, alla base e distanziati tra loro, due fori in cui si inseriva un palo necessario per farla girare. Per compiere questa operazione, che consentiva alla pietra di sollevarsi da terra e produrre la pressione necessaria per spremere la vinaccia, erano necessarie quattro persone, due da un lato del palo e due dall’altro lato. Il palo, una volta sollevata la pietra, veniva tolto perché poteva essere pericoloso se la pietra, tutto in una volta, ricadeva velocemente a terra. Nella prima fase di pressatura, essendo la vinaccia più carica di vino, la pietra, trovando meno resistenza, scendeva più velocemente: in seguito più lentamente, ed era necessario risollevare più volte la pietra met­tendo degli spessori in legno (cuscini) tra la vinaccia ed il lignu i conzu. La pietra restava sospesa da terra intorno ai 60 cm. La torchiatura si svolgeva in diverse fasi: nella prima, si formava in una vasca, sotto il lignu i conzu, con l’aiuto di appo­site fasce in lungo fissate con dei puntali di ferro, i cavig­ghiuni, una cesta di vinaccia su cui veniva poggiata una spe­cie di zattera di legno detta tavuleri. Tra il tavuleri ed il lignu i conzu si ponevano gli spessori, cuscini. Attraverso tutta una serie di elaborati movimenti, in cui il lignu i conzu veniva fatto poggiare sulla cesta delle vinacce e la petra di conzu sollevata dalla sua base mediante la vite di sorbo, si otteneva la pressatura del pastuni, cioè della vinaccia. Questa operazione durava tutta la notte. Oggi è ancora possibile trovare alcuni anziani viticoltori che utilizzano i vecchi palmenti per vinificare le proprie uve ad uso familiare.

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