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Viti e vigneti

 

di Salvo Foti

 

In Sicilia la vite ha una storia antichissima, più antica di quella dell’uomo. Essa già esisteva nell’era terziaria, parecchi milioni di anni prima della comparsa dell’uomo, come attesta il ritrovamento di ampeloliti (viti non classificate) rinvenute proprio alle falde dell’Etna.
L’uomo fa la sua comparsa sull’Isola nel Paleolitico superiore (20.000 anni a.C.), e solo nel Neolitico le popolazioni iniziarono a dedicarsi all’agricoltura e quindi alla viticoltura. Da questo momento la storia, la mitologia, la religione, la cultura della Sicilia è indissolubilmente legata al vino.
Le tante dominazioni e gli scambi commerciali e sociali, tra la Sicilia e le civiltà del Mediterraneo, portarono diversi contributi alla vitivinicoltura dell’Isola.
Sull’Etna, i Siculi, provenienti molto probabilmente dall’Italia peninsulare intorno all’XI secolo a.C., introdussero oltre alla nomenclatura vitivinicola egea, nuovi dettami tecnici nella coltivazione della vite. Si deve sicuramente a loro il sistema di allevamento della vite ad alberello (alberello egeo).
I Siculi etnei, prima ancora della venuta dei Greci in Sicilia che introdussero il culto di Dionisio , veneravano già un dio indigeno del vino: Adranos. Il suo tempio sorgeva sulle falde occidentali dell’Etna, non lontano all’odierna Adrano. Nel tempio dedicato a Adranos si beveva vino in onore del dio nel corso di libagioni propiziatorie.
I Greci, che occuparono la Sicilia tra l’800 e il 500 a.C., portarono un contributo importantissimo alla viticoltura, alle tecniche di vinificazione, e alla cultura del vino. L’arte greca di fare il vino consentì, date le ottime caratteristiche qualitative delle uve, la tipizzazione di alcuni vini isolani che per la loro bontà diventarono sempre più famosi.
I Greci introdussero nuovi vitigni tra cui il “Grechetto”, l’attuale Grecanico, presente attualmente nel marsalese e in alcune zone dell’Etna.
A testimoniare l’importanza economica che aveva assunto il vino in Sicilia in quest’epoca, sono le innumerevoli decorazioni con motivi viticoli dei vasi vinari, e le tante riproduzioni su monete. Significative sono la litra d’argento, coniata nel 550-530 a.C. a Naxos, raffigurante la testa di Dionisio e un grappolo d’uva, e le monete dei paesi dell’Etna e di Catania riportanti Sileno (471-461 a.C.) e grappoli d’uva (430-403 a.c. e 212 a.C.).
Con i Greci in Sicilia, oltre l’arte di fare il vino, arrivò anche l’arte della mescita e del bere. Testimonianze significative sono i tanti recipienti vinari che si usavano per conservare e bere il vino.
Dalle capaci anfore grezze in cui era conservato, il vino veniva versato in vasi sferoidali od ovoidali (Dinoi, Crateri, Stamnoi), destinati alle sale e per questo esternamente decorati.
Da questi il vino era attinto con recipienti più piccoli detti Cìati (Kyathoi) e distribuiti ai commensali. Era anche in uso un vaso detto in greco “Psykter” di forma cilindrica, ristretto alla base e ampliato superiormente, che si pensa fosse adoperato per tenere il vino in fresco dentro un recipiente più grande contenente neve dell’Etna o acqua fredda.
Il culto dionisiaco arrivò in Sicilia con i greci prima del VIII secolo a.C.. A Dionisio, dio del vino erano dedicate innumerevoli danze, culti e feste. Danze orgiastiche e coreografiche venivano eseguite da gruppi di vendemmiatori nel periodo della vendemmia. Il grado di partecipazione e di trasporto religioso si manifestava con danze prolungate accompagnate da grida. Più vorticose erano le danze, più disordinati gli atti, più forti le grida, più si riteneva che i partecipanti alle sacre feste sentissero presente in loro il dio del vino, dispensatore di beatitudine.
Le processioni orgiastiche e le danze in onore di Dionisio venivano considerate dai fedeli come uno stato di grazia e un saggio di quella felicità ultraterrena che il dio concedeva ai propri adepti senza distinzione di nascita e di classi sociali.
La musica, il vino e l’amore erano i tre ingredienti principali delle riunioni conviviali e dei banchetti mondani dell’epoca, in cui si praticava sovente il gioco del Cottabos (Kòttabos).
I vini etnei e il vulcano si ritrovano spesso citati nella mitologia greca. Nell’Odissea Dionisio viene in aiuto a Ulisse con il vino per ammansire e inebriare Polifemo, Ciclope dell’Etna, in modo da poterlo accecare nel sonno. Sempre nell’Odissea si ritrova la testimonianza della crescita spontanea della vite alle falde dell’Etna (l’Isola dei Ciclopi) in epoca omerica.
Ateneo in una sua favola fa nascere proprio sull’Etna il primo vigneto della Sicilia per opera d’Oresteo, re dei Locresi, anche detto Phytios (=piantatore) che piantò per primo la vite, tramite talea, alle falde dell’Etna. Il figlio d’Oresteo fu chiamato Oeneo, dal greco oinos, cioè vino.
Secondo un’altra leggenda narrata da Virgilio, la prima vite fu trovata sul Mongibello (Etna) al tempo in cui regnava Aristeo, figlio di Beucalione. Il cane di Aristeo, scavando nelle sabbie del vulcano, rinvenne un tralcio di vite. Questa pianta prese il nome del cane e venne chiamata “Aeunon”, sembra, dando così origine alla parola “enos”, con la quale i greci chiamarono il succo d’uva fermentato.
Nel periodo della dominazione romana (264 ac.-533 d.C.) la produzione vinicola siciliana e in particolare modo quella etnea fu sempre in aumento. I vini siciliani furono considerati tra i migliori dell’epoca e per questo esportati ovunque anche in Francia (200.a.c.).
Anche la mitologia romana ha lasciato molte leggende. Tra queste significativa è quella del giovane Bacco che trovandosi sulla strada che oggi da Catania porta a Messina (cioè vicino Taormina) per la gran calura e la polvere si abbatté piangente su un mucchio di sassi. Gli dei preoccupati lo aiutarono facendo spuntare una pianta che diede dei grappoli meravigliosi che Bacco spremette avendone un vino che bevuto gli ridiede forza e vigore liberandolo dalla malinconica disperazione.
Gli antichi torchi, che ancora oggi è possibile trovare numerosissimi in uso nelle vecchie cantine dell’Etna, sembrano essere quelli descritti da Catone nella sua opera De Re Rustica XVIII. Catone descrive una macchina composta da una testata con due Stipites o Piedritti, in basso un organo inserito per le estremità nei piedritti e fatto girare mediante stanghe di volta in volta inserite dentro appositi fori. Una lunga e pesante trave longitudinale detta Prelum premeva sopra un canestro contenente le vinacce. Il perfetto funzionamento del torchio dipendeva dalla robustezza del prelum e dalla forza ed abilita degli uomini addetti all’organo, detti Vectarii.
I vini siciliani già noti nell’area del Mediterraneo, con il VII-V secolo a.C. iniziano a essere esportati, per mezzo di anfore di terracotta, anche in Etruria e a Roma (IV secolo a.C.). Sotto la dominazione romana i vini prodotti sull’Etna continuano ad avere notevole fama. Strabone e Teocrito , nei loro scritti, trattano ampiamente dei vini etnei e della viticoltura praticata alle falde dell’Etna.
Nei secoli successivi, la rinomanza e l’importanza dei vini dell’Etna continua.
Sotto gli Aragonesi si registra la costituzione di un’importante associazione di viticoltori: la “Maestranza dei Vigneri” di Catania (1435-60).
Nel periodo dei Vicerè , i vini prodotti sull’Etna sono rinomati ed esportati in Germania e Italia. Il Fazello nel ’500 lodava i vini etnei prodotti nel territorio di Acireale. Bacci nella sua opera “De Naturali Vinorum Historia”, datata 1569, fa ampie citazioni sui vini rossi dell’Etna, le cui virtù vengono attribuite alla matrice della terra vulcanica.
Tra il 1700 e il 1800 la vitivinicoltura, nel massiccio etneo, raggiunge un’importanza economica e sociale considerevole. Nei magazzini del porto di Riposto confluiscono i vini di tutte le contrade etnee, per essere imbarcati, e via mare raggiungere le innumerevoli destinazioni fuori regno.
L’Arnolfini , cita delle esportazioni dei vini di Mascali a Malta (1776). Domenico Tempio elogia nella sua poesia i vini di Mascali, Ragalna, Viagrande, Trecastagni.
Aspetto peculiare della fertilità del suolo etneo, oltre il particolare terreno vulcanico, è l’acqua. Essa anche se non affiora in superficie, ne resta sempre vicina e ciò rende possibile al vigneto di spingersi anche nelle contrade più alte. E così anche ad altitudini di 1000 metri la vite viene piantata, occupando il posto dei boschi, dei pascoli, risalendo le pendici della montagna fino a dove le condizioni climatiche lo permettono.
Dal catasto del 1844 si evince come il vigneto sull’Etna è la coltura dominante con percentuali delle superfici agrarie investite a vite superiori al 50%. Nessuna zona dell’Isola all’epoca registrava una concentrazione così elevata in superficie vitata.
Anche nelle zone site a livelli altimetrici più elevati, come Milo, si avevano percentuali di vigneto di oltre il 70%.
Nel 1848 la superficie vitata nel massiccio etneo era di oltre 25.600 ettari. I vitigni coltivati erano numerosissimi (oggi per la maggior parte estinti), tra cui i moscati, da cui si producevano vini liquorosi molto apprezzati e ben pagati, lodati da Giovanni Meli (1787) e da Briosi (1879) .
Le contrade più rinomate per la produzione dei vini etnei dell’epoca (1869), citate dall’esperto di vini Girolamo Caruso , erano quelle della Contea di Mascali (Mascali, Giarre, Riposto), della regione pedemontana dell’Etna e quelle del cosiddetto “Bosco etneo”, nucleo produttivo, abbastanza vasto, ricadente nei comuni di Viagrande, Trecastagni, Pedara, Nicolosi, Belpasso, Mascalucia, S. Venerina, Zafferana, Milo, S.Alfio e Mascali (parte alta).
Aspetto interessante, anacronistico per l’epoca, era la gestione dei fondi vitati. Essi, tranne per pochi possedimenti, erano a conduzione diretta. Questo era sostanzialmente determinato, oltre che da un attaccamento viscerale da parte del proprietario al suo fondo, dai continui lavori, cure e attenzioni che il vigneto etneo richiedeva.
Notizie di tecnica colturale, interessanti, sulla vitivinicoltura etnea dell’epoca ci vengono da Costarelli , ma soprattutto dal toscano Sestini . Le notizie lasciateci del Sestini sono di notevole pregio storico e tecnico, perché egli osservò e riportò le varie operazioni colturali senza paragonarli ad altre pratiche in uso all’epoca in altre regioni che poco attinenza potevano avere con un ambiente molto particolare come è quello dell’Etna. Egli, infatti, testualmente cita: “….comecché le terre sono mescolate di una quantità di grosse pietre o lave, non si possono in queste piantare le vigne secondo la maniera delle nostre parti, e far le fosse lunghe, a forza di zappone, o marza, alla profondità che si richiede, per passare a piantarvi o collocarvi i maglioli, ma ciò vien supplito dall’industria dei vignaiuoli con voltare e rivoltare previamente la terra a forza di aratro, per indi passare alla piantaggione dei magliuoli….”.
La lava è il primo ostacolo che il viticoltore etneo da sempre deve affrontare nel piantare la vigna. E per far questo dapprima ha usato le proprie mani con rudi arnesi, poi la polvere da sparo e il piccone. Con le pietre più grosse ha costruito i muri di cinta dei campi e in seguito, dal 1850, i muri a secco di contenimento delle terrazze, con cui la vite si è arrampicata sempre più in alto sul monte.
Sull’Etna, ancora oggi è possibile trovare in piccoli vigneti gente anziana che ripercorre gli stessi gesti descritti dal Sestini nel coltivare la vigna. Simboli antichi sono ancora in uso, come la “pampina”, foglie di edera selvatica messe davanti la cantina a testimoniare che il vino è pronto per la vendita.
Tra il 1880 e il 1890, le aziende vitivinicole etnee, pur a carattere padronale, si estesero talmente da far diventare Catania la prima provincia siciliana per superficie vitata, con 91.800 ettari di cui ben 50.000 ettari ricadenti nella regione etnea, che all’epoca produceva, da sola, più di cento milioni di litri di vino.
Notevoli quantità dei vini prodotti sull’Etna, allo stato sfuso, prendevano la via del mare dall’antico porto di Riposto per la Francia, l’Italia settentrionale e le Americhe. A Riposto, a sostegno amministrativo, di tutela e di controllo dei vini etnei, si istituì, nel 1886 l’Ufficio Enologico , e a Catania, su Regio Decreto, nel 1881, la Scuola Enologica , tra le prime in Italia.
In questo periodo, per la lavorazione dei sottoprodotti del vino, nacquero parecchie distillerie, concentrate soprattutto nei comuni di Riposto e S. Venerina.
Nel 1890 alcune aziende iniziarono a imbottigliare i loro vini, alcuni dei quali premiati all’esposizione di Parigi del 1900. Tra queste la ditta Carlo Tuccari di Castiglione di Sicilia che imbottigliava un vino riportante il nome della contrada: “Solicchiata”, e Biondi & Lanzafame di Trecastagni che nel 1913-14 in diverse esposizioni nazionali e francesi (Parigi, Lione) furono premiati con medaglia d’oro.
Con l’inizio del secolo (1900) la viticoltura etnea, così come quella isolana ed europea, ebbe un drastico e rapido crollo dovuto all’infezione fillosserica dei vigneti. Il successivo graduale reimpianto dei vigneti, che utilizzò come portinnèsto resistente la vite americana, non ripristinò mai più tutta la superficie vitata prefillossera esistente sull’Etna, che venne inesorabilmente dimezzata. Ad aggravare ulteriormente la difficile situazione economica, in cui si venne a trovare il settore vitivinicolo ad opera dell’invasione fillosserica, contribuì la maggiore esosità delle imposte sul vino (così come era già avvenuto tra il 1713 ed il 1734 sotto la dominazione piemontese) decise, per la Sicilia, dal governo di allora (1920-24). Delle 116 lire con cui si comprava un ettolitro di vino dell’Etna, più di 50 lire erano imposte!
Da questo momento per la viticoltura etnea iniziò un declino inesorabile che portò all’estirpazione dei vigneti a favore degli agrumeti nelle zone più basse e all’abbandono definitivo in quelle più alte facendo restringere la zona di produzione in una fascia altimetrica, intorno a quasi tutto il vulcano, compresa, mediamente, tra i 400 e gli 800 metri.
L’11 agosto 1968 con Decreto del Presidente della Repubblica i vini Etna rosso, Etna rosato, Etna bianco ed Etna bianco superiore, vengono, tra i primi in Italia, riconosciuti a Denominazione di Origine Controllata.

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